Handy

Il mio nome è Andy e ho ventidue anni.
Fin da piccolo sono sempre stato un tipo strano, diverso dagli altri bambini.
Poco più avanti mi è stata diagnosticata una rara forma di schizofrenia indifferenziata, ovvero una particolare patologia che mi mostra cose che non esistono, mi fa sospettare delle persone, presento disturbi motori e mi fa chiudere in me stesso.
Io non ci credo, tutto quel che vedo è reale.

Tutto risale al mio dodicesimo compleanno, undici anni fa.
Mamma mi volle portare al parco a giocare, con i miei pochi amici.
Ma, allontanandomi troppo, mi persi.
Vagando tra gli alberi incontrai un uomo, avanti con gli anni. Puzzava di alcol e, mettendomi la mano destra sulla spalla mi disse “Ti sei perso? Hai bisogno di aiuto?”
La sua voce tremava ed emanava un odore fetido.
Corsi, ma lui era più veloce, provai a fuggire, morsi, graffiai e mi liberai.
Arrivato ad un cancelletto, che separava la zona del giardino botanico da quella panoramica, lo chiusi con forza e l’uomo, subito dietro di me, non fece in tempo a togliere la mano.
Tranciata di netto. Vidi la sua espressione, inorridita e allo stesso tempo furibonda.

Corsi e arrivai all’uscita, chiedendo aiuto.
Raccontai l’accaduto e portai sul posto tutti gli uomini che riuscii a trovare.
Non vi era nulla, né sangue, né mani mozzate; il cancelletto era spalancato.

Da lì nacque il mio calvario. Mi portarono da uno psichiatra e mi marchiarono a vita, schizofrenico.
Ma io non ci credo. Tutto quel che che vedo è reale.

Fui preso in giro, da tutti. Mi chiamavano Handy, il senza mano.
Nessuno mi credeva, e persi i miei pochi amici.
Mia madre piangeva ogni notte.
Così, una volta compiuti ventuno anni, scappai di casa e imboccai la strada principale.

Ora cammino per la strada, e osservo la gente.
Vivono tutti in una realtà virtuale, cellulari, cuffiette, tablet. E poi sarei io quello malato?
Sono diverso, è vero, ma è per questo che vogliono farmi fuori?
Come schizofrenico non ho la possibilità di portar con me una pistola.

Vogliono uccidermi.

Cammino per la strada, e osservo la gente.
Ma qualcuno osserva me, ne sono certo, ma loro non sanno che io sono pronto.
Una pistola infilata tra i pantaloni, carica.
Nessuno può uccidermi.
Lui mi sta cercando.

Cammino per la strada, e osservo la gente.
Si allunga, la gente.
La sera sta calando, le ombre ti salutano.

I suoi occhi sono puntati su di me, mi ha trovato.
Estrassi la pistola e tolsi la sicura, accelerai il passo.
Sentivo i suoi passi, correva.

Sentii una mano toccarmi una spalla, ma non vidi nessuna mano.
Mi girai e sparai, sei colpi.
Nessuno può uccidermi.

 

 

 

 

“Andy fu arrestato e condannato per omicidio volontario, sconta la sua pena in un ospedale psichiatrico.
La sua vittima si chiamava Gary Burton, ventisei anni, morto per aver provato a restituire un portafoglio, caduto a Andy, probabilmente mentre estraeva la pistola.”

L’angelo

Quasi tutti, quando pensano ad un angelo, lo immaginano con le ali, con l’aura luminosa tutt’intorno ed un sorriso che non finisce più.
Non io, io non vedo questa perfezione. Perché nella perfezione non c’è nulla da aggiungere e tu saresti di troppo.
L’angelo, il mio angelo, può essere solo colei riuscirà a completare quel vuoto che sento quando sto in mezzo alla gente.
Un vuoto che non si può colmare con cioccolato o film, né con amici e fotografie.

È il vuoto che lascia l’amore non trovato, il vuoto di una vita passata ad aspettare quel sorriso che nella sua imperfezione ti scalda il cuore, facendoti dimenticare quanto il mondo sia triste e malvagio.

Ed io voglio quel sorriso, e il cioccolato, e gli abbracci che per troppo mi son stati negati.

Errore di calcolo

Sento le mie membra cadere a peso morto, non si muovono da lì, sono come pietre di un fiume che bagna i vestiti rossi e sporchi di sangue vermiglio, ancora lì dalla guerra che non finisce mai, guerra senza fondo, come il pozzo di una coscienza che sbaglia consapevolmente, commettendo quell’errore imperdonabile segnato di rosso sui miei vestiti. 

È solo un errore di calcolo, un piccolo errore di calcolo.

Il muro dell’immaginazione

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale.

A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un’ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo.

Il suo letto era vicino all’unica finestra della stanza.
L’altro uomo doveva restare sempre sdraiato.
Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore.
Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto.
Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori alla finestra.
L’uomo nell’altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno.
La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto.
Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo.
Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza.
Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena.
In un caldo pomeriggio l’uomo della finestra descrisse una parata che stava passando.
Sebbene l’altro uomo non potesse sentire la banda, poteva vederla.
Con gli occhi della sua mente così come l’uomo dalla finestra gliela descriveva.
Passarono i giorni e le settimane.
Un mattino l’infermiera del turno di giorno portò loro l’acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell’uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno.
L’infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo.
Non appena gli sembrò appropriato, l’altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra.
L’infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo.
Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno.
Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto.
Essa si affacciava su un muro bianco.
L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra.
L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro.
“Forse, voleva farle coraggio.” disse.
Epilogo: vi è una tremenda felicità nel rendere felici gli altri, anche a dispetto della nostra situazione.
Un dolore diviso è dimezzato, ma la felicità divisa è raddoppiata.
Se vuoi sentirti ricco conta le cose che possiedi che il denaro non può comprare.
L’oggi è un dono, è per questo motivo che si chiama presente.

(Condivisa da Anonimo)